Quando ero un ragazzino e scrivevo i miei primi articoli non riuscivo a spiegarmi perché anche le magagne più evidenti non venissero quasi mai a galla sulla stampa che conta. Poi ho capito. E lo capii in parte durante il mio attivismo antimafia e in parte casualmente, partecipando a qualche evento e, soprattutto, passeggiando per il centro storico di Roma. Cosa che amavo fare e facevo spessissimo.
Li vedevo e mi pare di rivederli uno ad uno, mentre scrivo il mio j’accuse con i Muse nelle orecchie (come tutte le occasioni importanti), i colleghi giornalisti ed i cronisti parlamentari in particolar modo, che affollano gli stessi bar e ristoranti dei politici sui quali dovrebbero vigilare.
Mi direte: è giusto, perché è così che si fanno gli scoop. Concordo. Ma se a quel ristorante ci vai e ti siedi a qualche tavolo di distanza, o magari ti nascondi in bagno per catturare qualche conversazione tra quel deputato e quel ministro, tra quel banchiere e quel senatore, eccetera, e non se ti ci scambi risate e favori.
In quegli anni capii anche che non ce l’avremmo mai fatta, che alla fine (nel bene e nel male) siamo italiani, e non abbiamo un’educazione giornalistica di tipo anglosassone, dove i giornalisti sono i cani da guardia della democrazia anziché i cani da compagnia dei potenti.
Poco a poco, per fortuna, Internet iniziò ad entrare sempre di più nelle nostre vite, ed anche nel mondo dei media. Fu così che tanti altri piccoli mondi, prima d’allora pressoché inesplorati, cominciarono ad essere divulgati. Temi di nicchia, come l’innovazione, le startup ed il digitale, iniziavano ad avere i loro primi protagonisti, le prime storie da raccontare.
Ma in un mondo piccolo, ovviamente, tutti frequentano gli stessi luoghi, gli stessi eventi, si incontrano, si scambiano sorrisi ed ammiccamenti, si danno del tu, si diventa anche amici per davvero in alcuni casi. E questo non è un male, ci mancherebbe, siamo esseri umani e in quanto tali viviamo di relazioni. Figuriamoci se non si coltivano questi aspetti in un mondo altrimenti alienante, poiché fatto di algoritmi, intelligenze artificiali, realtà virtuali, eccetera.
C’è, però, un problema, specie per un giornalista: l’entusiasmo. L’entusiasmo, quando vivi e ti relazioni all’interno di una piccola community, ti prende. Ti travolge. Ci rimani completamente coinvolto. E finisci, col passare del tempo, per perdere anche di vista quei punti saldi del tuo mestiere: la razionale freddezza, l’imparzialità, la trasparenza, la curiosità, insomma tutti quelle precondizioni necessarie per fare il tuo lavoro in modo corretto e, soprattutto, onesto.
Sono un privilegiato. Uno di quelli che all’interno di questa piccola e meravigliosa nicchia degli “innovatori” italiani tanto ha avuto, in termini di crescita personale e professionale, ma che tanto anche ha dato, cercando di tenere sempre la barra dritta e non “mandare nelle vostre case acqua inquinata”, per dirla con Enzo Biagi.
Mi rendo conto che non basta. Vedo, leggo ed intuisco molte cose che, soprattutto sul piano etico, mi pongono di fronte ad una scelta molto difficile. E sento il bisogno di dare un segnale civico forte ad un ecosistema sempre più autoreferenziale, avvitato su se stesso, nel quale purtroppo la commistione amicale tra giornalisti, uffici stampa e “imprenditori” rischia di travolgere tutto e far venir meno ogni oggettiva rappresentazione della realtà.
Non è abbracciandoci e dicendoci continuamente quanto siamo bravi che cresciamo. Non è così, soprattutto, che un giornalista onora il patto che lo lega ai cittadini di cui è occhi, orecchie e bocca.
Ci sono, inoltre, poche regole base di “igiene professionale” che dovrebbero essere rispettate, parlo di quegli imprenditori e investitori che diventano a loro volta anche dei piccoli influencer, e che utilizzano i loro canali social personali, spesso, per offendere chi non la pensa come loro o che pongono semplicemente delle domande. Quelle stesse persone che iniziano ad esser chiamate come ospiti e commentatori in tv, alla radio o intervistati in qualità di esperti di questo o di quello. Con il solito clima, manco a dirlo, accomodante.
No, non va bene. E sono aspetti come questo che differenziano e differenzieranno sempre chi ha una formazione giornalistica da chi non la possiede. Purtroppo e per fortuna uno dei miei più grandi limiti, in tal senso, è sempre stata la mia forza.
L’incarnare questa figura ibrida del giornalista-divulgatore e dell’influencer-consulente-manager, ha sempre messo in contrapposizione le due anime, ma alla fine ha vinto sempre la prima: così, quando scrivo sui social o un articolo, quando sono speaker in qualche evento o tengo una lezione io indosso, in ogni momento, un abito mentale. Un abito mentale che serve per proteggere me ma anche, soprattutto, chi mi legge, ascolta e vede. Una responsabilità, soprattutto etica, che per me viene prima di ogni cosa. Senza mai rinunciare alle mie idee ed i miei valori, che però, se e quando capita, vengono sempre espressi secondo le regole ferree dell’abito mentale di cui sopra. Anche a scapito della carriera e della popolarità.
Per di più, non mi sono mai legato a nessuna delle “cricche” che popolano questo piccolo e variegato ecosistema, tenendomi alla larga da aperitivi, cene ed eventi mondani, se non estremamente necessario per ragioni professionali. Non è un caso che non mi sia arricchito, facendo questo lavoro, né che abbia fatto viaggi spesati in Silicon Valley e ricevuto premi e regalie varie. Tutti quei benefit dei quali molti godono ma che raramente vengono dichiarati.
Purtroppo non basta. Questo periodo lontano dall’alta velocità e dai riflettori mi ha aiutato a fare un ulteriore esame di coscienza. Mi rendo conto tardi, ma fortunatamente non troppo, di aver sacrificato sull’altare delle pubbliche relazioni uno dei miei doveri primari: essere uno dei guardiani del faro. Di quelli che si fanno e fanno le domande giuste al momento giusto, osservando e vigilando senza commistioni di ogni sorta su tutto l’ecosistema e mantenendo sempre, sempre sempre, le dovute distanze professionali.
Sono ancora in tempo per rimediare, per utilizzare al meglio quel poco di credibilità che in questi anni mi sono guadagnato. E lo devo fare subito, senza tentennamenti, adesso, perché il Coronavirus sta cambiando e cambierà con una velocità impressionante le nostre vite. Non parlo solo di quelle dei cosiddetti “addetti ai lavori”, parlo soprattutto di quelle persone, a partire da quelle a noi più prossime che, non possedendo una alfabetizzazione digitale piena e consapevole, hanno il diritto ad essere protette. Hanno bisogno di guardiani, che spieghino loro, in maniera totalmente libera e disinteressata, l’importanza di temi quali la tutela dei dati digitali che ogni giorno producono, e di come li producano, attraverso la moltitudine di dispositivi tecnologici di cui oramai tutte le famiglie italiane dispongono.
In altre parole, non serve una sfera di cristallo per prevedere che anche dopo il lockdown le nostre vite diventeranno sempre più digitali. E considerato che ciò sta già avvenendo, ovvero che i limiti tra reale e digitale si faranno sempre più sottili e che, sullo sfondo, saranno messi gradualmente in discussione anche i nostri diritti e nostre libertà individuali, vi sarà estrema necessità anche di figure terze che vigilino con rigore ed imparzialità su infrastrutture, industrie, fornitori, investitori, istituzioni, governi. E, aggiungo, anche sui media tradizionali, perché non dimentichiamoci che non esistono “fake news” o “post-verità”, come le chiamavano inizialmente: semplicemente, esistono bravi e cattivi giornalisti, buoni e cattivi direttori, buoni e cattivi editori. Se vogliamo un’informazione davvero di qualità non possiamo più accettare che oltre metà dei contenuti che ogni giorno leggete online e su carta siano prodotti da giornalisti precari che guadagnano – quando va bene – poco più di 10 euro a pezzo. Con sindacati silenti e che non sanno (o fingono di non sapere) come funzionino oggi i desk di decine di redazioni in tutta Italia, a partire dalla “creatività contrattuale” con la quale vengono inquadrate le collaborazioni.
Non me ne vogliate, ma credo che non ci sia atto d’amore più grande di rinunciare ad un qualcosa che hai contribuito a far crescere. Tecnicamente non cambierà nulla. Continuo ad esserci, a non prendermi mai troppo sul serio ed a fare il mio lavoro nel miglior modo possibile. Cambierà completamente l’approccio alle persone, alle cose, ai fatti.
Ciascuno può scegliere di fare la sua parte, io farò la mia. Avrete in più – questo è certo – una sempre maggiore consapevolezza e rispetto del ruolo (e dei ruoli), con intorno un perimetro etico granitico. A prova di blockchain (ok, questa la capiranno solo i più nerd. Ma non importa).
Ritorno sul faro, dunque, con lo spirito pioneristico dei primi anni, quando mi occupavo – perdonatemi – di temi molto più funesti di questa nebbia digitaloide, marchettistica e tecnofila che io stesso ho inconsapevolmente contribuito ad alimentare. E’ giunto il momento di spalancare davvero le finestre ed accendere un faro, su questo mondo, perché là fuori ci guardano. Perché abbiamo delle responsabilità e, quindi, anche degli obblighi che per troppo tempo non sono stati considerati.
Ps:
Una delle prime novità di questa quarantena è aver messo in piedi un nuovo nuovo format video casalingo, #SostienePecora, nel quale ogni giorno, in diretta, provo a fare divulgazione (non solo) digitale e parliamo di come, più in generale il lavoro e le nostre vite stanno cambiando e continueranno a cambiare dopo il lockdown. Tra queste, proprio ieri ho parlato di futuro del giornalismo, cercando di spiegare come funziona attualmente la “macchina”, chi ci mette i soldi, eccetera. Se lo vorrete potete vederla qui.
