Non sono un influencer. Non mi ci sento né, sinceramente, ho mai ambito a diventarlo. Sì, certo, fa piacere sapere che quello che fai, scrivi e spieghi inizia ad avere un suo seguito e produrre effetti positivi. Ma non è questo il punto.
Il punto è capire le dinamiche della rete, perché siamo un po’ tutti e un po’ nessuno influencer. Potremo anche saper cucinare un piatto buono e bello, ma ciò non basterà a farci diventare automaticamente chef stellati, o fare il pieno di like con l’addominale scolpito o la coscia in vista e proiettarci già in passerella con Armani, oppure ancora girare un video e/o scrivere un post che diventa virale e sentirci già novelli Pulitzer.
No, non è così che funziona: certo, il digitale è un grande veicolo di disintermediazione, con una facilità di accesso e potenza di fuoco che oramai hanno superato di gran lunga gli altri media, ma non basta. Questo è Matrix, non è reale. O meglio, non lo è del tutto.
Il fact checking, fatto a me stesso
Com’è che si diventa influencer? Vorrei provare a fare un po’ di fact checking su me stesso, che pur avendo iniziato a scrivere giornalisticamente da quando avevo 15 anni, trovo ancora oggi difficile riuscire prendermi sul serio, fare quello che sale in cattedra e dispensa consigli, insomma.
Come dico spesso, soprattutto per le cose di cui mi occupo, sono una figura molto ibrida (e quindi ho meno concorrenza): un po’ giornalista, perché osservo e racconto, e un po’ divulgatore perché tutte le cose più difficili che non conosco le studio bene e poi riesco anche a spiegarle con parole semplici. Che sia in un articolo, una conferenza o in radio poco cambia: la narrazione della tecnologia è uno dei pochi argomenti per i quali il mezzo non coincide con il messaggio.
LEGGI ANCHE: Fintech, il direttore Aldo Pecora top influencer italiano
Così ho scalato il fintech
Che poi, a pensarci bene, mi occupo di aziende e startup ma non ho mai scritto un modello di business, racconto il futuro dei soldi ma non ne ho mai fatti davvero, lavoro con i numeri ma non sono un analyst, sono il direttore di Ninja Marketing ma non vengo da questo mondo… insomma, delle due l’una: o sono un millantatore oppure sono la prova vivente che, quando hai un minimo di talento e capisci velocemente le cose allora il digitale diventa davvero una rampa di lancio senza eguali. Soprattutto quando, come nel mio caso, sei attivo su un tema che da fuori è visto come super noioso e di nicchia quale la finanza tecnologica, il cosiddetto fintech.
Un mondo che però, proprio perché vuole distruggere (creativamente) il mondo delle banche e della finanza, o lo fai tuo perché impari a conoscerlo davvero bene (per difendere te stesso e la qualità di quello che dici) o ti taglia fuori per sempre.
Saper parlare di crowdfunding, di instant payments, di peer-to-peer, di bitcoin e blockchain mi ha probabilmente fatto conquistare in pochi anni un posto “autorevole” in questo settore, e già da un po’ se posso o devo – soprattutto da quando sono direttore – mi occupo più vastamente di digital economy.
Come si diventa top influencer
Proprio per questo, perché oramai sono uno di quelli che questo mondo lo conosce un po’ dall’interno, vorrei un attimo provare a smitizzarlo. A partire da me.
Qualcuno mi ha detto per scherzo in questi giorni “sei la Ferragni delle banche”. No, non è vero. Sono due mondi opposti il mio e il suo, così come lo sono – ahimè – i nostri rispettivi conti correnti.
Quando Matteo Flora mi ha contattato per anticiparmi che secondo l’analisi dei social che anche quest’anno avevano realizzato con ABI Eventi (la società in house dell’Associazione bancaria italiana, ndg) e che io fossi in cima alla classifica, certamente la cosa mi ha fatto piacere e mi ha stupito, nonostante fossi in queste classifiche già da un po’ di tempo, ma ho subito “smontato” verbalmente la cosa a lui e a me stesso. Un po’ per stare coi piedi per terra un po’ perché sono consapevole degli effetti collaterali dello storytelling.
Com’è che si diventa influencer, dicevamo? Nel mio caso è stata una fortuita serie di occasioni: dal convegno importante, alla radio, all’articolo giusto scritto al momento giusto. Poi il resto lo ha fatto Twitter. Persone e gruppi di persone che in questo 2017 hanno scambiato e condiviso informazioni dove all’interno c’era anche menzionato, taggato, collegato il sottoscritto. Dati e interazioni (di interazioni). Tutto qui.
Non c’è una regia, una giuria, come per i riconoscimenti più importanti: quell’analisi altro non è che una fotografia, scattata ad una scena in particolare (il mondo della finanza tecnologica) e in un determinato periodo di tempo (il 2017), ed è capitato che io, in questa foto, sia uscito bene. O comunque per un motivo o per un altro sia quello che si nota di più. Non è una nomina o un riconoscimento, insomma, ma una constatazione.
Il fatto che tra le slide sulle scrivanie di bancari, venture capital e addetti ai lavori, proprio durante il Salone dei Pagamenti che è l’evento più importante del settore, sia finita anche la mia faccia può essere una bella soddisfazione: perché nasconderlo. Ma ciò non basta a fare di me un vero esperto o un uomo potente né, soprattutto, un giornalista e divulgatore migliore di altri miei colleghi e colleghe.
Adesso scusatemi, ma devo andare: ho una call con Jeff Bezos e Warren Buffet! 🙂
(Reblog dell’articolo originale pubblicato su Ninja Marketing)
